martedì 8 maggio 2018

Da Schaüble a Schulz a Scholz: cosa si sta preparando in Europa?



Traccia dell’intervento all’incontro
C'È UN FUTURO PER LA SINISTRA IN ITALIA?, VI ASSEMBLEA NAZIONALE DEL NETWORK PER IL SOCIALISMO EUROPEO, Fiuggi 5/6 maggio 2018.
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(non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
Sergio Cesaratto
La risposta  al quesito che mi ponete è incoraggiante: per ora non si sta preparando nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona cosa. Ma non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo non sia già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da festeggiare.
Non è neppure facile districare i termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).

L’eurozona nasce male, non si fa una moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è un’area valutaria ottimale, anche questo è common knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
Semplificando, la posizione francese è tradizionalmente quella che vorrebbe un po’ di politica fiscale anticiclica in comune, in genere si parla di una assicurazione europea contro la disoccupazione. Ma attenzione, si tratterebbe comunque di pochi quattrini elargiti per periodi temporanei. Di più, il fondo dovrebbe essere accumulato nelle fasi di espansione (il che non ha molto senso dal punto di vista Keynesiano).[1] Un cavallo di battaglia tradizionale della Francia è inoltre un qualche coordinamento macroeconomico (il che implica che la politica fiscale ridiventerebbe strumento da agire in comune) sotto forma di un Eurogruppo rafforzato, ma mi sembra che Macron sia ben lontano dal proporlo. Anzi, diciamo subito che Macron, di fronte ai no tedeschi, ha già rinunciato a una battaglia sulla riforma dell’eurozona.
Dopo un mese dal suo pomposo discorso alla Sorbona del settembre 2017, arrivò infatti l’asciutta risposta di Schaüble sotto forma del famoso “non-paper”, quattro paginette su carta qualsiasi con cui il ministro tedesco si congedò dall’Eurogruppo. Schaüble non spese neppure molto inchiostro per dire di no a ogni ipotesi di politica fiscale, e enfatizzò un aspetto: il controllo sui conti pubblici degli Stati dell’eurozona va sottratto alla mediazione politica della Commissione e affidato a un organo indipendente; allo scopo lo European Stability Mechanism (il fondo “salva-Stati”) va trasformato in un European Monetary Fund, il quale dovrebbe avere anche compiti di gestione delle crisi; questa gestione, e questo è il punto più importante, deve implicare una ristrutturazione dei debiti che coinvolga il settore privato. Insomma, la sferza dei mercati deve essere il vero controllore della disciplina fiscale: i mercati, timorosi di dover subire perdite nel caso di procedure di default e ristrutturazione, sanzioneranno l’indisciplina fiscale. Un punto importante per la Germania rimane quello che ogni impegno fiscale europeo debba rimanere subordinato al parere del Bundestag.
A inizio 2018 abbiamo poi avuto un documento di 14 economisti radunati allo scopo da Merkon, una sfilza di proposte, spesso cervellotiche, ma comunque basate sulla logica del non-paper di rendere più inflessibile il controllo dei conti e più forte la sferza dei mercati (con la minaccia del “private sector involvment”) sui debiti pubblici. Rimando al mio nuovo libro per i dettagli.
Numerosi osservatori hanno giudicato questa posizione come irresponsabile e destabilizzante, una riedizione del disastro generato dalla famosa passeggiata di Merkosy a Deauville nell’autunno 2010.
Altro argomento dibattuto è il completamento dell’unione bancaria. Rendere europea la gestione delle crisi bancarie è fondamentale per la stabilità. Negli Stati Uniti le crisi bancarie locali sono gestite a livello federale con, all’occorrenza, fondi federali. Ciò evita che Stati locali (privi di banche centrali) siano trascinati nelle crisi bancarie, che così diverrebbero crisi fiscali (come accaduto in Irlanda e Spagna). Per costituire un fondo europeo di assicurazione sui depositi, Germania e satelliti chiedono però due garanzie: (a) che le banche si liberino delle famose sofferenze bancarie; (b) che si riducano la sovraesposizione in titoli di Stato nazionali (per evitare che le banche siano coinvolte in crisi fiscali). Di per sé sono richieste ragionevoli, ma… Le sofferenze bancarie a carico delle banche italiane (tanto è poi l’Italia che si ha sempre in mente!) sono principalmente il risultato delle sciagurate politiche europee, e senza un contestuale abbandono di quelle politiche solo lentamente esse potranno liberarsene. Una frettolosa riduzione dell’esposizione delle banche, italiane in titoli di Stato italiani, creerebbe difficoltà per questi ultimi. Senza un contesto europeo di garanzia sui titoli pubblici tutto questo sarebbe assai pericoloso.
Al momento la situazione delle riforme sembra bloccata. Ad aprile la CDU si è manifestata disinteressata alle riforme, mentre con l’allontanamento dell’”europeista” Martin Schulz il tema europeo è caduto in subordine anche nell’agenda della SPD. La posizione tedesca è estremamente nazionalista e volta “a preservare sempre gli interessi tedeschi”, come ha dichiarato la leader della CDU (Eurointelligence, 17/4/2018). Le più recenti proposte tedesche sono un annacquamento dell’Eurogruppo, che da (vago) organo informale di coordinamento macroeconomico dovrebbe trasformarsi in un organismo ancora più indistinto, con l’ingresso dei “ministri allo sviluppo” accanto a quelli delle finanze. La Merkel gioca anche con l’idea di fondi europei per l’innovazione, da distogliersi da altri impieghi (naturalmente), magari in cambio di riforme pro-mercato. Ma siamo alle chiacchere, alle misure di “window dressing” (Eurointelligence 20/4/2018), come fu il piano Junker. La Germania sembra anche aver abbandonato l’idea di una trasformazione dell’EMS in un EMF, dato anche un miglioramento dei rapporti con il FMI, nel passato molto critico sulle politiche europee in Grecia - secondo Eurointelligence (19/4/2018) questo può dipendere dal fatto che i paesi asiatici ora snobbano il FMI per cui questo ha politicamente più bisogno dell’Europa).
Mi sembra invece di dover anche segnalare la figura del nuovo ministro delle finanze tedesco, l’SPD Olaf Scholz. Costui aveva esordito dichiarando la sua continuità con Schaüble affermando che «Un ministro delle Finanze tedesco è un ministro delle Finanze tedesco, l’affiliazione partitica non gioca alcun ruolo” («Financial Times» 2018), e nominando o confermando come suoi consiglieri gli ordoliberisti del suo predecessore. Ciò che è peggio, la sua prima legge finanziaria non sarà contraddistinta dal cosiddetto “Schwarze Null” (zero nero), ma dal “Schwarze Eins” (uno nero), vale a dire un avanzo di bilancio, con l’obiettivo di portare l’anno prossimo il rapporto debito pubblico/Pil tedesco sotto il 60%. L’operazione è agevolata dall’ottimo andamento dell’economia tedesca, guidata dalle esportazioni agevolate dall’euro sinora relativamente debole, e dai tassi a zero o sottozero sui titoli di Stato, ma comporterà anche dei tagli alla spesa per infrastrutture, spesa militare e clima. Eurointelligence (4/5/2018) evoca l’appoggio SPD alle politiche di austerità del cancelliere Heinrich Brüning, quelle che nei primi anni ’30 spianarono la strada al nazismo.
Che fare? La ripresa italiana è stata tirata dal buon andamento delle esportazioni, trainato dall’euro debole e dalla ripresa europea, e da un orientamento della politica fiscale un po’ meno restrittivo. Continua nel paese la martellante campagna guidata da Cottarelli e da Banca d’Italia sulla stagnazione della produttività come dovuta a soli fattori d’offerta. Questa impostazione ha avuto il sostegno di un articolo indegno di Jean Pisani-Ferry, consigliere di Macron, pezzo ripreso da Social Europe, cosa che la dice lunga sullo stato pietoso del socialismo europeo. In verità la produttività stagna dal 1995, precisamente da quando il cammino verso l‘euro fu intrapreso con determinazione (dal centro-sinistra ulivista, naturalmente). Il paese ha bisogno di sostegno della domanda interna. La migliore performance spagnola si spiega molti in questi termini.
Non possiamo che riprendere qui quanto proponemmo già nel 2010-11, ovvero la stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil. Come scrivo nel nuovo libro: “L’aritmetica economica ci suggerisce che se la Banca centrale si impegna a tenere i tassi di interesse sufficientemente bassi, tale stabilizzazione può aprire uno spazio fiscale espansivo (permettere cioè un deficit spending) volto al sostegno della domanda interna, di cui il nostro Paese ha disperatamente bisogno.[2] Gli effetti positivi di tale sostegno si ripercuoterebbero positivamente sull’obiettivo di stabilizzazione del debito. In tali condizioni la quantità di titoli pubblici in pancia alle banche italiane non costituirebbe certo un problema, mentre le sofferenze bancarie diminuirebbero. L’impegno alla stabilizzazione del debito, assieme al dato storico di quasi trent’anni di avanzi fiscali primari, dovrebbe essere la risposta italiana al timore europeo di moral hazard. A fronte di quest’impegno il Paese dovrebbe chiedere una corrispondente responsabilità europea nel sostegno della domanda, in particolare nei Paesi con ampio spazio fiscale per farlo, per sostenere la ripresa nei Paesi del Sud ed evitare il riemergere di squilibri esteri nell’area euro, oltre a un impegno della BCE al proseguimento di politiche che agevolino stabilizzazione e crescita”.
La proposta di Boitani e Minenna su Affari & Finanza va in questa direzione: se l’Eurosistema (la BCE per capirci) congelasse i titoli acquistati e da acquistare col quantitative easing, trasformandoli in titoli trentennali, praticamente una parte cospicua dei debiti pubblici europei verrebbe cancellata, almeno per un lungo periodo. Come ciascuno sa, infatti, gli interessi che gli Stati pagano sul debito posseduto dalla Banca Centrale vengono da quest’ultima rigirati allo Stato. L’effetto sui tassi di interessi pagati sul resto del debito non potrò che essere positivo. Boitani e Minenna sostengono che il risparmio in conto interessi può servire a ridurre lentamente il rapporto debito/PIL incorrendo in surplus primari più piccoli (e dunque meno recessivi). Si può però andare oltre, e porsi come obiettivo la mera stabilizzazione del suddetto rapporto potendo così perseguire disavanzi primari (che sono espansivi). Solo una volta che, attraverso il sostegno della domanda interna, la crisi fosse veramente superata e il contesto economico lo permettesse, allora si può pensare a un percorso di riduzione del rapporto debito/PIL.
Il punto è farlo capire ai tedeschi, e in questo non c’è speranza. Vorrei dire che da questo punto di vista sarei felice vedere Salvini Presidente del Consiglio (senza soverchie illusioni, naturalmente). So che qualcuno a sinistra comincia a pensare allo stesso modo. Molte cose fondamentali mi/ci distanziano da Salvini: il fatto che non si dichiari anti-fascista senza se e senza ma, la flat-tax che è simbolica della lontananza dal riformismo socialista, l’assenza di un progetto profondo di cambiamento del paese. Ma sa però parlare alla gente, e magari i suoi amministratori locali non sono neppure male. Confrontate Salvini e Cuperlo! E sull’Europa ha le idee chiare, e ha chiamato Bagnai accanto a sé – che piaccia o no la testa più lucida sull’Europa che abbiamo nel Paese. E la sinistra? Vedo che i giovani fanno riunioni senza neppure un economista, forse ci si accontenta delle indagini sul precariato (se desiderano indirizzi di straordinari giovani economisti glieli posso dare). Non c’era un economista di sinistra candidato né in LEU né in PaP, di quelli che si sono spesi in questi anni, intendo. Il paradosso è che Salvini a questi economisti farebbe ponti d’oro. Tranquilli/e, noi non venderemo l’anima al diavolo, ma che a sinistra si annidino nemici del Paese non abbiamo dubbi.
Riferimenti
Boitani A., Perdichizzi S. (2018), Public expenditure multipliers in recessions. Evidence from the Eurozone, Dipartimento di Economia e Finanza, Università Cattolica del Sacro Cuore, Working Paper n.68

Cesaratto, S. (2018a), Chi non rispetta le regole? Italia e Germania: le doppie morali dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia.
Comunicazione di servizio
la Feltrinelli è l'ultima a fare gli ordinativi dei libri, quindi il nuovo libro lo trovate in molte librerie (e soprattutto su IBS) ma non ancora alle Feltrinelli (assurdo ma è così).




[1] Da un punto di vista keynesiano (poco compreso anche fra chi si definisce tale), un aumento dei risparmi non è un mezzo per trasferire risorse dal tempo t al tempo t+1, anzi, ha affetti recessivi.
[2]          Intuitivamente, dato il rapporto fra debito pubblico e Pil, se il tasso di interesse nominale medio sul debito pubblico (a cui cresce il numeratore) è inferiore al tasso nominale di crescita del Pil (a cui cresce il denominatore), si può fare un po’ di spesa in disavanzo stabilizzando i rapporto debito/Pil.

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